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Héctor Tizón: l’uomo che se ne andò da un paese / 1

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Il 30 luglio scorso ricorrevano due anni dalla morte dello scrittore argentino Héctor Tizón, originario della provincia di Jujuy. Lo scrittore Andrew Graham-Yooll gli ha dedicato un interessante reportage su Pagina/12, che noi vi proponiamo in due parti, ringraziando l’autore e la testata.

«L’uomo che se ne andò da un paese» / 1
di Andrew Graham-Yooll
traduzione di Claudia Tebaldi

Héctor Tizón morì due anni fa, il 30 luglio del 2012, lasciando un’opera ritenuta, con il passare del tempo, molto più di una semplice testimonianza regionale. In vita tracciò un arco paradigmatico delle sorti di uno scrittore e intellettuale negli anni Sessanta: l’esilio sotto la dittatura e il successivo ritorno in Argentina. Yala, il suo posto nel mondo, a circa quindici chilometri dalla capitale jujeña; l’origine di alcuni dei suoi libri, a partire dal fondante Fuego en Casabindo, la sua lucidità e anche parte della sua ingenuità in campo politico vengono restituite in questo reportage realizzato a San Salvador de Jujuy, grazie alla testimonianza di sua moglie e compagna di una vita intera, Flora Guzmán, e alcuni scritti che lasciò per far sì che si finisse di decifrare una vita letteraria.

La memoria custodisce un luogo in cui si colloca Héctor Tizón in quella notte del settembre del 1976. «Non lasciamo che la politica superi l’amicizia. Gli amici, l’amicizia, vengono prima della politica…» Tizón e sua moglie, Flora Guzmán, tornarono a casa, a La Lucila, per congedarsi. Annunciarono che se ne andavano in esilio. Dopo quasi un quarto di secolo, nell’agosto del 2000, ristabilitosi nella sua cara Yala, nella provincia di Jujuy, Tizón sottolineava: «Sì, ho detto questo, l’amicizia viene prima della mitologia e della militanza, naturalmente. Fu un momento terribile… Tutto ciò che riguardava la politica mise in secondo piano l’amicizia. I figli diffidavano dei padri, i padri dei figli, i fratelli dei fratelli. Si arrivò a una carneficina». Dopo quasi quattro decadi, ho deciso di ricordarlo, con poche certezze e molte omissioni. L’amicizia è spesso così.

È strano che quella notte a La Lucila si registri più chiaramente di altre nell’archivio personale dei ricordi. Era iniziata la grande fuga verso l’esilio. Tizón e la sua famiglia si rassegnavano a seguire quel cammino. Poco dopo lo avrei fatto anch’io con Micaela e i nostri tre figli. L’esilio spezza un rapporto: l’amicizia non si perdeva, ma si offuscava l’intimità delle chiacchierate, dei consigli, della felicità che ci dava ciò che più amavamo a Buenos Aires o a Jujuy. Portammo avanti una nutrita corrispondenza tra l’ottobre del 1969, poco dopo la pubblicazione del suo primo romanzo, Fuego de Casabindo, e la metà degli anni Novanta, quando il telefono sostituì i fogli scritti a mano.

Quella notte del 1976 mise fine alla fantasia di essere vicini anche se c’erano 1500 chilometri tra casa e casa in un paese che pur ci apparteneva. Londra e Madrid sembravano separate da diecimila o centomila chilometri.

L’angoscia si era già impadronita di Tizón; prima, quando un giovane avvocato, Jorge Ernesto “Dumbo” Turk, fu prelevato dai sicari di Videla dallo studio del poeta e avvocato di prigionieri politici Andrés Fidalgo (1919-2008), vittima anche lui di una dittatura che precedette il terrore. E poi, quando Alcira, figlia di Fidalgo, venne arrestata a Buenos Aires nel 1976. Subì un secondo colpo, a 26 anni, nel 1977, quando divenne una desaparecida. Tizón, avvocato di diritto del lavoro, era ormai segnato. L’esilio lo trasformò, lo fece diventare uno scrittore diverso, con lo stesso idioma, ma con un soggiacente malessere.

Ora, nella sua casa nel quartiere Los Perales della capitale jujeña, Flora Guzmán ricorda che ci rincontrammo per qualche pratica burocratica, a pochi giorni da quell’addio a La Lucila, nel 1976, nel bar della stazione Retiro. «La conversazione non durò nemmeno un quarto d’ora. Ti ricordi? Non facevamo che guardarci intono, senza rivolgere lo sguardo a chi parlava o ascoltava. E tu ti alzasti e dicesti: “Così non si può parlare, andiamocene!” E ce ne andammo, spaventati».

Héctor Tizón morì il 30 giugno del 2012, prossimo agli 83 anni, in una clinica di San Salvador de Jujuy. Yala era vicina – forse a quindici chilometri – nel cuore.

 

Gli appunti

Flora Guzmán, moglie e grande amore dello scrittore Héctor Tizón, rivede le sue  memorie e le sue carte. La conversazione gira intorno a come usare gli appunti, le annotazioni, gli articoli per realizzare una specie di diario di Tizón. Flora Guzmán prende in considerazione una sua futura pubblicazione. «È tutto mischiato – spiegava. Ci sono 71 pagine di diario, però non sempre si sa a chi o a cosa si riferiscono gli scritti. Ci sono appunti sul futuro presidente (Josef Broz) Tito, della Yugoslavia, che secondo Héctor passo un periodo a Jujuy; come scrisse nella Mujer de Strasser (1997)». Nel saggio Tierras de frontera (1998), scritto a Yala, Tizón aggiunge un altro eccentrico personaggio comparso a Jujuy, un fratello del compositore Giacomo Puccini. La lontananza fa coesistere questi estranei.

Flora Guzmán legge a voce alta passaggi delle annotazioni lasciate da Tizón. «“In vista del futuro ormai niente mi coinvolge più di tanto. Forse soffia per me un briciolo di speranza. Non sarà già arrivato il momento di spezzare la penna, come scrissi nel reportage per Granma?”. Questo lo scrisse l’ultima volta che andammo a Cuba, nel 2009», chiarisce Flora.

Tizón partecipò come giurato del concorso Casa de las Américas. «Ci sono molte cose che non hanno senso. Sono appunti. A volte parla di qualcosa di specifico, ma non si capisce».

Il messaggio scritto a Cuba ha lo stesso tono conclusivo del suo ultimo libro, Memorial de la Puna (2012), pubblicato poco tempo prima della sua morte: «Mi fermerò qui, con queste pietre edificherò la mia casa e non tornerò mai più a vivere in città, tra una moltitudine che non arriverò mai a conoscere. L’acqua tra le montagne, il vigore di queste anguste valli, la pioggerella che, apparentemente, rende più tristi gli autunni; e così sarà fino a quando non si compirà il mio destino. Non scriverò nemmeno più; ora mi rendo conto più chiaramente che scrivevo perché la vita non mi bastava. Ora so anche che non basta scrivere, bisogna avere un destino», si legge in queste pagine.

Questo libro finale contiene passaggi splendidi, brillanti. C’è molto altro su Tizón negli appunti letti da Flora – il suo amore, sua moglie, la sua vedova – che lentamente scorre i fogli cercando di snocciolare ciò che lasciò il suo amato, passaggi che dovettero essere collegati all’esile volume che è ad oggi l’“ultimo” libro dell’autore.

Flora continua a leggere: «Lungo il corso della mia vita, che sta tramontando, ho ricevuto riconoscimenti e onorificenze che mi hanno obbligato a orientare la mia condotta…» Mancano delle cose, dice Flora. Le annotazioni, includendo l’agenda, comprendono 85 pagine battute a macchina. «Questa è una trascrizione, poi ne elaboriamo un’altra. Guarda, qua c’è un riferimento a Graham-Yooll…» E legge le parole di Tizón: «Circola una versione sul fatto che avrebbero crivellato di colpi il nostro amico Andrew Graham-Yooll, segretario di redazione del Buenos Aires Herald, preda di bande fasciste… ma lui ci avvisa che diventerà padre del suo terzo figlio». Ai tempi della Tripla A[1] non si sapeva se si sarebbero visti nascere i propri figli. Il riferimento di Tizón riguarda Isabel Graham-Yooll, nata il 12 ottobre del 1975. La perquisizione all’Herald è della fine di quel mese. Flora ha ragione: gli appunti, meticolosamente scritti a macchina, sono confusi.

Prendiamo un tè. «Hiroshima Mon Amour; Sencha (tè verde giapponese), albicocca e pesca, fiori di malva europei, rose bianche del Pakistan, calendule dell’Egitto e fiori di zagara». Poi passiamo al whisky. Un sollievo. A Tizón piaceva bersi il suo whisky.

[1] Alianza Anticomunista Argentina. [n.d.t.]


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